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venerdì 17 aprile 2009

La battaglia di Lepanto-Un episodio glorioso nella storia della Cristianità





Un episodio glorioso nella storia della Cristianità

La battaglia di Lepanto

Articolo apparso in Cristianità - n. 80 del dicembre 1981

Dall'episodio relativo alla battaglia di Lepanto un esempio, sempre valido anche per i nostri giorni, di solidarietà internazionale e cristiana di fronte al comune pericolo, allora rappresentato dalla minaccia turca. L'eroica resistenza dei cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme in Malta assediato dai turchi. La Lega Santa tra gli Stati cattolici nella Cristianità della Contro-Riforma, modello di unità del mondo cattolico, raggiunta superando interessi temporali divergenti grazie soprattutto alla decisa mediazione dell'allora regnante Pontefice, san Pio V. La gioia della Cristianità alla notizia della vittoria di Lepanto, che preservò intere nazioni europee dalla dominazione musulmana.

All'alba del 7 ottobre 1571, esattamente quattrocentodieci anni fa, aveva inizio, nelle acque di Lepanto, porto della costa ionica, situato di fronte al Peloponneso e non distante da Corfù, una delle più grandi battaglie navali della storia, frutto glorioso degli sforzi della Cristianità controriformistica. Non pare affatto fuori luogo ricordarne l'anniversario, e ricordarlo nel modo più serio, cioè riassumendone la storia e inquadrando l'evento nella situazione del Mediterraneo negli anni immediatamente precedenti e seguenti, così da comprenderlo meglio e da poterlo valutare nella sua portata e nel suo significato.

La Cristianità e il Mediterraneo intorno alla metà del Cinquecento

Intorno alla metà del secolo XVI la situazione della Cristianità era delle più difficili. Il secolo si era aperto, è vero, all'insegna delle promettenti conquiste di nuove terre in Africa, in Asia, in America (1). Ma, già nel secondo decennio, l'incendio acceso dall'ex monaco Martin Lutero era divampato in tutta Europa, approfittando del fertile terreno costituito e preparato da molte tendenze affermatesi nel secolo precedente: dalla diffusione di un movimento culturale umanistico sostanzialmente acristiano, quando non anticristiano (2), alla decadenza della scolastica, con prevalenza in campo filosofico di un neoplatonismo paganeggiante e magico-esoterico o di un aristotelismo averroista; dalla decadenza delle élite aristocratiche e guerriere alla diffusione, nei vari ceti sociali, di una ricerca del lusso e dei piaceri, dal ricorrere di gravi crisi nella Chiesa, come l'esilio del papato ad Avignone e il successivo lungo scisma, alle difficoltà dei Papi rinascimentali di portare a termine una riforma della Chiesa, a parte qualche intervento pur significativo (3).

Mentre Carlo V tentava, attraverso una serie continua di guerre, di salvare l'unità dell'Impero, la Chiesa avviava, col grande Concilio di Trento, insieme uno sforzo di rinnovamento e di riaffermazione solenne delle verità dogmatiche minacciate dall'errore protestante. Come spesso è accaduto nella sua bimillenaria storia, essa trovava al suo interno una straordinaria capacità di reazione, documentata dal fiorire di santi e di nuovi ordini religiosi, dei quali il più importante fu certamente la Compagnia di Gesù, fondata da sant'Ignazio di Loyola, destinata a rappresentare l'arma di punta della riconquista cattolica di una parte dell'Europa.

Questa, d'altra parte, era tormentata dalle contrapposizioni politiche fra Stati cristiani. Così, la Francia - del resto tormentata da decennali e sanguinose guerre di religione - non esitava, talora ad appoggiarsi, nella sua politica antiasburgica, a principati protestanti, e giungeva a vedere con qualche sollievo la forza minacciosa dei turchi nel Mediterraneo.

In questo mare, poi, al pericolo turco si aggiungevano i divergenti interessi, anche comprensibili, degli altri Stati cristiani. Così, mentre Venezia era preoccupata soprattutto delle minacce e degli attacchi che i sultani e le loro forze portavano alle posizioni che essa conservava nello Ionio e nell'Egeo, la Spagna si preoccupava in particolare della presenza musulmana nel bacino occidentale del Mediterraneo, cercando di combatterla nelle sue basi nordafricane (4). Quando la generale situazione europea consentì a Carlo V di tentare di assumere una contro-iniziativa nel Mediterraneo, essa si articolò in due grandi spedizioni contro Tunisi e contro Algeri, delle quali solo una poté considerarsi riuscita (5).

E' questo un primo elemento da tenere presente: la vittoria di Lepanto e, prima ancora, la costituzione di una flotta congiunta, non fu il risultato di interessi politici convergenti. Essi, semmai, divergevano, come si vide negli anni precedenti e seguenti la battaglia stessa. Essa fu piuttosto il frutto di scelte coraggiose e responsabili di alcuni principi e uomini politici e militari cristiani, nonché della persistenza, ancora notevole, anche a livello popolare, dello spirito di crociata (6).

Comunque, dalla fine del Trecento, l'espansione turca si era fatta sempre più minacciosa e, pur avendo conosciuto qualche battuta di arresto - sia per vittorie cristiane che per alcune crisi interne -, nel complesso essa appariva quasi inarrestabile, mentre, negli intervalli tra le vere e proprie guerre, un continuo stillicidio di incursioni, attacchi corsari, saccheggi, catture di schiavi, massacri, manteneva, sui mari e lungo le coste, il terrore nei confronti degli aggressivi infedeli. Ed è questo un secondo elemento da tenere presente per valutare Lepanto: il senso di liberazione provato non solo e non tanto per la scomparsa di un pericolo - che fu, come vedremo, temporaneo -, ma anche per la prova raggiunta che fermare i turchi, volendo, era possibile.

L'assedio di Malta nel 1565

Nella impossibilità di rievocare in questa occasione il lungo elenco di vittorie e sconfitte, di piccoli e grandi episodi, di tentativi di sforzi comuni e di prevalenze di interessi particolari, mi pare utile prendere il 1565 come anno di avvio del racconto degli eventi che culminarono nella giornata di Lepanto. Ciò soprattutto per l'importanza che ebbe il fallimento del tentativo turco di conquistare Malta, tentativo che ebbe luogo proprio in quell'anno. Si può ben dire che esso segnò la fine di un periodo di netta prevalenza turca e l'avvio di un'azione cristiana di controffensiva, ancorché marcata da quei ritmi lenti e da quelle diffidenze reciproche di cui ho sopra fatto cenno (7).

L'importanza di Malta non era legata soltanto alla perdita eventuale di una posizione geograficamente e strategicamente del massimo rilievo, ma anche al fatto che l'isola era la base di quell'ordine militare dei cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme il quale, adattandosi alle nuove circostanze, non aveva perso il suo antico spirito e il senso della sua tradizione, legati alle Crociate e alla Terrasanta. Le sue non numerose galee agivano con decisione sul mare, impegnate regolarmente in una spesso vittoriosa, sempre fastidiosa contro-guerriglia navale, mentre le sue basi costituivano un punto d'appoggio vitale per tutte le navi cristiane (8).

L'attacco a Malta, con tutte le forze turche disponibili, fu deciso in persona dal vecchio Solimano, detto il Magnifico, per vendicare i danni patiti per opera dei Cavalieri di Malta e per dare prova che, dopo vari anni di regno, era ancora capace di sferrare offensive in grande stile contro il mondo cristiano; ciò benché, tra i suoi consiglieri, ve ne fossero alcuni contrari, timorosi delle grandi capacità militari dei Cavalieri - dimostrate anche durante il lungo assedio turco di Rodi - e favorevoli, semmai, ad attaccare le posizioni spagnole di Tunisi e di La Goletta, magari con una manovra diversiva contro Otranto. Comunque, il sovrano turco non era un avventato e si preoccupò di garantirsi la neutralità della Francia e di Venezia (9).

La flotta turca si mosse con grande velocità e rapidità mentre in Occidente ci si interrogava sui possibili obiettivi che essa avrebbe potuto perseguire; a Malta, allorché 18 maggio 1565 la immensa flotta turca si presentò o all'isola, non erano stati fatti quei preparativi militari - perfezionamento delle opere difensive già esistenti, ammasso di viveri e munizioni - che sarebbero stati dettati dalla consapevolezza di dovere affrontare un così terribile assedio.

In altra occasione, semmai, racconterò in dettaglio vicende della resistenza dei Cavalieri e dei molti episodi degni di essere conosciuti (10). Qui basterà dire che essa fu eroica, talora ai limiti dell'incredibile. Uno storico, certo non accusabile di facili entusiasmi o di intenti apologetici, Fernand Braudel, dopo aver esposto come la situazione si presentasse favorevole ai turchi, non esita a scrivere: "Ma il gran maestro, Jean Parisot de la Vallette, e i suoi cavalieri si difesero meravigliosamente. Il loro coraggio salvò tutto" (11).

In effetti, quasi tutta l'isola fu occupata, tranne alcune fortificazioni che resistettero a oltranza, nonostante lenti bombardamenti e i ripetuti assalti. I difensori del piccolo forte di Sant'Elmo morirono tutti, ma ai turchi fu necessario più di un mese per conquistarlo. Il forte di San Michele resistette ancora più a lungo anche grazie alle coraggiose sortite del gran maestro e di un pugno di cavalieri che gettavano il panico nelle fila del grande esercito turco e alleggerivano la pressione degli assedianti.

Malta ebbe così il necessario respiro. Poterono arrivare i primi rinforzi inviati dal viceré di Napoli, don Garcia de Toledo. I turchi decisero di rinunciare all'impresa, abbandonando l'isola il 12 settembre.

E' stato scritto che "la vittoria delle armi cristiane - vittoria piena e decisiva - aveva richiesto dolorosi sacrifici: duecentodieci i cavalieri caduti, sessantanove i serventi d'arme morti e, diciassette i dispersi, cinque cappellani caduti, cui devono essere aggiunti i soldati morti in combattimento dei quali settemila maltesi e duemilacinquecento di altre nazioni " (12). Ma Solimano il Magnifico, il conquistatore di Rodi e di Belgrado, di Buda e di Tabriz, era stato sconfitto e il mito della invincibilità delle sue armate era stato scosso.

La Lega Santa

Tuttavia, gli avvenimenti del 1565, pur favorevoli, nelle loro conclusioni, alle armi cristiane, avevano confermato i pericoli che derivavano dalla disunione politica e militare della Cristianità. La vittoriosa resistenza di Malta fu un motivo di incoraggiamento per la riscossa cristiana, ma anche un campanello di allarme. Ma altri fattori resero possibile la grande giornata di Lepanto, fra i quali, a parere di quasi tutti gli storici, anche non cattolici, decisiva fu l'azione di san Pio V, salito al pontificato all'inizio del 1566.

Il nuovo Papa era nato presso Alessandria nel 1504. Entrato giovane nell'ordine domenicano, si era distinto per l'austerità della vita e l'impegno nella difesa del cattolicesimo. Lo notò il cardinale Carafa, il quale, nel 1551, lo fece nominare commissario generale dell'Inquisizione; divenuto questi Papa con il nome di Paolo IV (1555-1559), nominò lo stimato padre Michele prima cardinale e, poi, grande inquisitore. Fu, invece, messo da parte dal successivo Papa, Pio IV, il quale, se pure ebbe il merito di chiudere il Concilio di Trento e di avviarne l'applicazione, seguiva una linea più moderata del suo predecessore. L'elezione del cardinale Ghislieri all'inizio del 1566 costituì, perciò, una sorpresa. Essa, dovuta in buona parte alla influenza in conclave san Carlo Borromeo, segnò la definitiva affermazione, in seno alla Chiesa cattolica, di quelle forze che perseguivano lucidamente ed energicamente una strategia di contro-riforma basata sul rinnovamento della Chiesa stessa; sulla integrale applicazione delle decisioni di Trento; su un'azione, improntata a severità e decisione, di difesa della Cristianità sia sul piano esterno che sul piano interno, a tutti i livelli, da quello politico a quello culturale (13).

Fedele allo spirito di crociata e perfettamente consapevole della minaccia turca - rinnovata, dopo la morte di Solimano, dal nuovo giovane sultano, Selim, salito al trono nel 1566 -, san Pio V si adoperò in ogni modo per appianare i contrasti tra le potenze cristiane mediterranee e per spingerle a uno sforzo comune. Di lui Fernand Braudel ha giustamente scritto: "Certo, non un papa del Rinascimento: un'età ormai finita" (14). Meno giustamente, mi sembra, aggiunge che egli fu "intransigente e visionario" (15); intransigente certamente, ma visionario è termine equivoco, nella misura in cui sembra alludere non soltanto alla sua santità e alla sua tensione spirituale, ma anche a una astrattezza che la sua azione non ebbe. E' spesso, purtroppo, con accuse simili che vengono liquidati i progetti la cui magnanimità spaventa; e si fanno valere le ragioni di una pseudo-prudenza politica, le quali sono, sovente, ben più irreali e astratte, anche se molto più comode.

Intanto, mentre le guerre di religione infuriavano in Francia e nei Paesi Bassi, l'espansione turca riprendeva minacciosa, non solo sul mare, ma anche alle frontiere ungheresi dell'impero. Inoltre, non senza sospetti di manovre turche, una rivolta dei musulmani di Granada, scoppiata nel 1569, si estendeva a gran parte dell'Andalusia, protraendosi a lungo.

Mentre le forze spagnole erano impegnate in questa difficile guerra, alla fine vinta sotto la guida di don Giovanni d'Austria - venticinquenne fratellastro del re di Spagna Filippo II -, Tunisi cadeva in mano musulmana e i turchi si apprestavano ad attaccare Cipro, approfittando delle difficoltà di Venezia, della quale, tra l'altro, era bruciato quasi completamente il famoso Arsenale, per un incendio dì cui non si può escludere l'origine dolosa (16). Nel luglio, in effetti, i turchi sbarcavano a Cipro e nel settembre conquistavano la capitale, Nicosia. La resistenza cristiana continuò nella più fortificata Famagosta, sotto la guida dell'eroico Marco Antonio Bragadin, poi destinato a orrendo supplizio quando, nell'anno successivo, la città dovrà cadere, nonostante le promesse e i patti.

San Pio V colse l'occasione dell'attacco a Cipro per superare la politica, ormai insufficiente, dei piccoli e occasionali aiuti. Fin dall'inizio perseguì la costituzione di una vera e propria lega. Le trattative furono lente; bisognava superare interessi divergenti. Alla fine la Sacra Lega fu firmata il 20 maggio 1571, nonostante gli sforzi della Francia, che cercava di dissuadere Venezia; nonostante la riluttanza di Filippo Il a impegnarsi nel Mediterraneo orientale; nonostante lo scetticismo dei veneziani, rafforzato da una deludente campagna fiaccamente condotta nell'autunno del 1570; nonostante i contrasti tra il granduca di Toscana Cosimo I e il sovrano spagnolo. Ed essa ebbe anche rapida attuazione, nonostante le obbiettive difficoltà di radunare e concentrare una forza ingente, come previsto dall'accordo e come necessario per la situazione, costruendo e armando navi, arruolando marinai e soldati, provvedendo ai rifornimenti resi tanto più difficili, in quanto il raccolto del 1570 era stato cattivo nei paesi spagnoli.

La battaglia di Lepanto

La flotta cristiana riuscì a concentrarsi a Messina alla fine di agosto del 1571. Presto, se si considera la difficoltà che dovettero superarsi; troppo tardi, secondo i più prudenti tra i condottieri cristiani: Requesens, inviato personale di Filippo II, e Gian Andrea Doria consigliavano di limitarsi a un atteggiamento difensivo; nello stesso senso scriveva da Pisa don Garcia de Toledo. "Ma don Giovanni prestò ascolto soltanto ai capi veneziani e a quei capitani spagnuoli della sua cerchia che insistevano per l'azione; e, presa la decisione, si dedicò al compito con l'ardore esclusivo del suo temperamento" (17). In effetti, fu la sua energia, sostenuta dal fascino della sua personalità e dalla naturale attitudine al comando, a soffocare sul nascere riaffioranti contrasti tra capitani e tra equipaggi. Fu la sua volontà a perseguire lo scontro, andando a cercare l'armata nemica. Furono, poi, il suo coraggio e il suo valore militare a giocare un ruolo molto importante nella battaglia stessa.

Così, la flotta cristiana andò a cercare quella turca, la quale, dopo essersi spinta fino a metà Adriatico, era rientrata a Lepanto, per imbarcare nuovi equipaggi e nuovi viveri. La flotta cristiana era composta da duecentootto galee, quella turca da duecentotrenta. Centodieci galee avevano comandanti veneziani, anche se, per la scarsezza di uomini, gli equipaggi erano stati rinforzati con truppe provenienti dagli Stati spagnoli, in specie per il settore degli archibugieri. Trentasei provenivano da Napoli e dalla Sicilia; ventidue da Genova, al comando del Doria; ventitré dagli Stati pontifici e da altri Stati italiani (18); quattordici dalla Spagna in senso stretto e tre da Malta (19).

La superiorità numerica, gli ordino avuti dal sultano e il suo temperamento personale indussero il comandante in capo della flotta turca, Alì, a non sottrarsi al combattimento, pur se nell'ambito dei comandanti turchi non poche voci si erano espresse in senso contrario.

Mentre le flotte si avvicinavano fu inalberato sulla galea del comandante in capo dell'armata cristiana (20) lo stendardo della Lega, offerto da san Pio V, che recava in campo cremisi il Crocifisso con, ai piedi, le armi del Pontefice, di Venezia e della Spagna. Don Giovanni e il comandante pontificio, Marcantonio Colonna, imbarcatisi su due piccoli e veloci legni, percorsero tutto lo schieramento, ricordando la natura divina della causa per cui combattevano e che il Crocifisso era il loro vero comandante. A bordo, i cappellani confessavano e i capitani incitavano; gli equipaggi lanciavano grida di guerra (21).

Un contemporaneo ricorda che nelle galee cristiane "tuttavia si toccavano assiduamente gli tamburi e ogni altra sorte di istrumenti", aggiungendo che esse "vogavano in bellissima ordinanza", cioè stando molto vicine, in modo da impedire la penetrazione di gruppi di navi nemiche (22). Il mare si calmò improvvisamente, e ciò parve miracoloso agli esperti di mare. La battaglia si accese, dopo che dalle imbarcazioni ammiraglie erano partiti i primi colpi di artiglieria.

Mentre Gian Andrea Doria, a capo dell'ala destra dello schieramento cristiano, era costretto ad allargarsi per evitare la manovra di aggiramento tentata dal corno sinistro

dello schieramento turco, comandato da Euldj-Ali (27) la battaglia si decise nel centro. Le artiglierie giocarono un ruolo tutto sommato secondario, anche se la superiorità di fuoco delle sei galeazze veneziane, pesantemente armate,

rimorchiate in prima fila, ebbe un peso rilevante nel gettare un sanguinoso disordine nel cuore dello schieramento nemico. Decisiva fu la superiorità delle fanterie cristiane nella serie dei combattimenti ravvicinati tra singoli gruppi di galee, guidate da capi che "non mancavano di mostrare animo gagliardo e grande" (24). Intanto, "gran parte degli schiavi cristiani che si trovavano sopra l'armata nemica [...]

facevano ogni sforzo per procacciare il loro scampo e la vittoria dei nostri" (25).

Molti furono gli episodi di eroismo: l'equipaggio della galera Fiorenza dell'Ordine di Santo Stefano, tutto ucciso salvo il suo comandante Tommaso de' Medici e quindici, uomini. Il generale Giustiniani, dell'Ordine di Malta, e il comandante della galera capitana dell'Ordine, fra' Rinaldo Naro, furono feriti tre volte; quaranta cavalieri di Malta caddero nel combattimento (21). Morì, tre giorni dopo la battaglia, anche il comandante in seconda veneziano, Agostino Barbarigo, il quale, accorgendosi che ì suoi ordini non erano uditi bene, si scoprì il viso mentre "i nemici più fieramente saettavano; essendogli detto si coprisse [...] rispose che minor offesa egli sentirebbe di essere ferito che di non essere udito", e fu così ferito mortalmente (27). Del valore di don Giovanni si è detto; va anche ricordato il grande apporto di Marcantonio Colonna e del settantacinquenne comandante veneziano Sebastiano Venier.

Le proporzioni della sanguinosa battaglia possono essere riassunte in poche cifre. Se i caduti cristiani furono circa 9 mila, quelli turchi furono 30 mila, e varie altre migliaia quelli catturati. Soltanto trenta navi turche riuscirono a fuggire; delle altre, centodiciassette catturate e divise tra gli Stati membri della Lega e le rimanenti andarono distrutte (28).

Una vittoria senza conseguenze?

E' la domanda che si pone Fernand Braudel, ricordando che una serie di storici, e primo - si potrebbe dire: naturalmente - Voltaire, hanno insistito sul fatto che negli anni successivi la vittoria non fu sfruttata a fondo (29).

In effetti riemersero antichi contrasti, mentre molti altri scacchieri impegnavano la Spagna. Nel 1575 Venezia fu fiaccata da una terribile epidemia (30). Nel 1578 don Giovanni d'Austria, che era nei Paesi Bassi a combattere contro i protestanti, morì improvvisamente. Ma si tratta di osservazioni storicamente non corrette, come già ho accennato in qualche osservazione precedente.

In realtà bisognerebbe domandarsi, per capire la portata dell'avvenimento, cosa sarebbe successo se la vittoria non ci fosse stata o, peggio, se ci fosse stata una sconfitta. Non solo tutte le posizioni veneziane nei mari Egeo, Ionio e Adriatico sarebbero cadute, ma la stessa intera Italia, forse anche la Spagna, sarebbero state alla mercé dei turchi (31).

Allora comprenderemo la gioia dei popoli cristiani (32) l'entusiasmo dei veneziani all'arrivo della notizia, i festeggiamenti fatti un pò dappertutto. Il Papa, quando ricevette dal nunzio veneziano la notizia della vittoria, proruppe in lacrime e ripeté le parole della Scrittura: "fuit homo missus a Deo cui nomen erat Johannes" (33). Il re Filippo II stava assistendo ai vespri nella cappella del suo palazzo quando entrò l'ambasciatore veneziano, proprio mentre veniva intonato il Magnificat, gridando Vittoria! Vittoria!. Ma il re non volle che si interrompesse la sacra funzione. Solo al termine fece leggere il dispaccio e intonare il Te Deum (34). Segno che si manteneva il senso della esatta gerarchia della storia in una buona prospettiva cattolica.

Certamente, la vittoria era stata ottenuta grazie a "la intelligentissima prudentia de i nostri generali, la bravura e destrezza de i capitani in mandare ad effetto, il valore de' gentiluomini e soldati nell'essequire", (35). Ma, più ancora, a ben altre forze, secondo la bella espressione del senato veneto: "Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit", "non il valore, non le armi, non i condottieri ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori" (36). Del resto, la vittoria di Lepanto era avvenuta nel giorno in cui le confraternite del Rosario facevano tradizionalmente particolari devozioni (37).

Marco Tangheroni

NOTE

(1) Di tali conquiste non bisogna dimenticare, accanto alle altre, le motivazioni di carattere religioso; Cfr. PIERRE CHAUNU, La conquista e l'esplorazione dei nuovi mondi (XVI secolo), trad. it., Mursia, Milano 1977.

(2) Non è questa la sede per approfondire il discorso sui limiti e sui caratteri dell'umanesimo cristiano, che certamente esistette, ma, a mio parere, senza possibilità di caratterizzare nella sostanza il periodo e le tendenze e non senza illusioni ed errori di prospettiva.

(3) PLINIO CORRÊA DE OLIVEIRA, in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 71-73, coglie l'importanza di questo periodo nell'avvio del processo rivoluzionario. Per le tendenze - sulle quali insiste giustamente il pensatore cattolico brasiliano - è sempre affascinante e ricca di stimoli la lettura di JOHAN HUIZINGA, L'autunno del Medioevo, trad. it., Sansoni, Firenze 1966. Interessante anche - proprio per l'orientamento marxista e progressista degli autori - RUGGERO ROMANO e ALBERTO TENENTI, Alle origini del mondo moderno, Feltrinelli, Milano 1967. Per l'aspetto filosofico RUDOLF STADELMANN, Il declino del Medioevo. Una crisi di valori, trad. it., Il Mulino, Bologna 1978 (l'originale edizione tedesca è del 1929).

(4) Fondamentale è FERNAND BRAUDEL, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, n. ed. it., Einaudi, Torino 1976, in particolare pp. 887-1326.

(5) Cfr. GIANCARLO SORGIA, La politica nord-africana di Carlo V, Cedain, Padova 1963.

(6) A proposito di questo argomento si può vedere FRANCO CARDINI, Le crociate tra il mito e la storia, Istituto di Cultura Nova Civitas, Roma 1971, pp. 292-332.

(7) F. BRAUDEL, op. cit., considera il 1565 l'ultimo anno della supremazia turca.

(8) Cfr. UBALDINO MORI UBALDINI, La marina dei sovrano militare ordine di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta, Regionale Editrice, Roma 1971. Per una visione d'insieme è tuttora fondamentale, sul piano degli avvenimenti militari, CAMILLO MANFRONI, Storia della marina italiana dalla caduta di Costantinopoli alla battaglia di Lepanto (1453-1571), Roma 1897. Ricordo anche il congresso tenutosi a Venezia in occasione del quarto centenario, Il mediterraneo nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto, Olfchki, Firenze 1974; cfr. anche FILIPE RUIZ MARTIN, The battle of Lepanto and the Mediterranean, in The Journal of European Economic History, 1, 1 (1972), pp. 166-169.

(9) Cfr. U. MORI UBALDINI, op. cit., p. 220.

(10) Cfr. FRANCESCO BALBI DA CORREGGIO, Diario dell'assedio di Malta, Palombi, Roma 1965; questo testo mi sembra il più interessante per avvicinarsi in modo diretto agli avvenimenti di quei mesi nell'isola.

(11) F. BRAUDEL, op. cit., p. 1088.

(12) U. MORI UBALDINI, op. cit., p. 243.

(13) Cfr. LUDWIG VON PASTOR, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, trad. it., Roma 1944.

(14) F. BRAUDEL, op. cit., p. 1100.

(15) Ibid., p. 1101.

(16) Ibid., p. 1137.

(17) Ibid., p. 1176.

(18) A causa della tensione tra Cosimo e Filippo II le dodici galee toscane parteciparono come noleggiate dal Papa, le cui insegne - e non quelle stefaniane o medicee - innalzavano: cfr. CESARE CIANO, I primi Medici e il mare, Pacini, Pisa 1980, pp. 59-66.

(19) Cfr. FREDERIC C. LANE, Storia di Venezia, trad. it., 2a ed., Einaudi, Torino 1978, pp. 428-432.

(20) Una ricostruzione della galea reale di don Giovanni d'Austria si può vedere nel Museo Navale di Barcellona, in scala l/1. Nella cattedrale della stessa città si conserva - ed è oggetto di gran devozione - un bel Crocifisso in legno, che si dice fosse a bordo della nave di don Giovanni.

(21) Cfr. GIOVANNI PIETRO CONTARINI, Historia delle cose successe dal principio della guerra mossa da Selim ottomano ai Venetiani fino al dì della gran giornata vittoriosa contra i Turchi, Francesco Ramparetto, Venezia 1572, foglio 48 r.

(22) U. MORI UBALDINI, op. cit. p. 274.

(23) Si tratta dell'Uccialì o Uccialli delle fonti cristiane. Il comportamento del Doria fu molto criticato, sia da alcuni contemporanei che da alcuni storici moderni. Ma la storiografia contemporanea tende a riconoscere l'opportunità del suo comportamento.

(24) G. P. CONTARINI, op. cit., f. 50 v.

(25) GEROLAMO DIEDO, La battaglia di Lepanto, Daelli, Milano 1863, p. 35. Diedo era un veneziano abitante a Corfù, contemporaneo degli avvenimenti.

(26) Cfr. U. MORI UBALDINI, op, cit., p. 277.

(27) G. DIEDO, op. cit., pp. 29-30.

(28) Cfr. F. LANE, op. cit., p. 431.

(29) Cfr. F. BRAUDEL, op. cit., p. 1181.

(30) Cfr. PAOLO PRETO, Peste e società a Venezia nel 1576, Neri Pozza, Vicenza 1978.

(31) Così conclude anche F. BRAUDEL, Op. cit., p. 1182 "anziché badare soltanto a ciò che seguì a Lepanto, si pensasse alla situazione precedente, la vittoria apparirebbe come la fine di una miseria, la fine di un reale complesso d'inferiorità della Cristianità, la fine d'un altrettanto reale supremazia della flotta turca [...] Prima di far dell'ironia su Lepanto, seguendo le orme di Voltaire, è forse ragionevole considerare il significato immediato della vittoria. Esso fu enorme". Il contemporaneo Contarini (op. cit., f. 34), scrive che prima di Lepanto "già era da tutte le parti il Christianesimo pieno di terrore".

(32) Interessante documentazione in GUIDO ANTONIO QUARTI, La battaglia di Lepanto nei canti popolari dell'epoca, Milano 1930.

(33) ANDREA DRAGONETTI DE TORRES, La Lega di Lepanto nel carteggio diplomatico di don Luis de Torres nunzio straordinario di S. Pio V a Filippo II, Bocca, Torino 1931, p. 64. Peraltro, S. Pio V aveva già ricevuto la notizia per mezzo di una rivelazione divina: cfr. card. GIORGIO GRENTE, Il pontefice delle grandi battaglie San Pio V, Edizioni Paoline, Roma 1957, pp. 166-168.

(34) Ibid., pp. 62-63.

(35) G. P. CONTARINI, op. cit., f.54 r.

(36) Citato, non a caso, da GIOVANNI CANTONI, in conclusione del suo saggio introduttivo a P. CORRÊA DE OLIVEIRA, op. cit., p. 50.

(37) Cfr. PIO PASCHINI, voce Lepanto, in Enciclopedia Cattolica.



http://www.totustuus.biz/users/altrastoria/Lepanto.html

LA BATTAGLIA DI LEPANTO




LA BATTAGLIA DI LEPANTO

Cinque giorni dopo la presa di Famagosta, a Messina, dove aspettavano la flotta veneziana a quella pontificia, giungeva a capo delle galee della Murcia e della Catalogna, don Giovanni d'Austria seguito da Alessandro Farnese, da Francesco Maria della Rovere, dal marchese di Carrara, da Ottavio e Sigismondo Gonzaga, da don Francesco di Savoia e da parecchi valenti capitani, quali Ascanio della Cornia, Andrea Provana conte di Leini, Pirro Malvezzi, Gil d'Andrate. i Doria, i Grimaldi, gli Imperiali, gli Spinola e don Alvaro di Bazan marchese di Santa Cruz.

Le forze che venivano a trovarsi sotto il comando di don Giovanni d'Austria erano le seguenti: trentuno galee e venti navi spagnole con cinquecentocinquantacinque cannoni, ottomila soldati e millesettecento marinai; diciannove galee napoletane con novantacinque cannoni, mille e novecento soldati e mille e cento marinai; sedici galee siciliane fra le quali la Capitana, la Sicilia, la Padrona, e la S. Giovanni, con venti cannoni, quattrocento soldati e duecentoquaranta marinai; dieci galee di Gian Andrea Doria. con cinquanta cannoni, mille soldati e seicento marinai; due di Niccolò Doria, quattro dei Nomellini, quattro dei Negroni, due dei De Mari, due dei Grimaldi, due degli Imperiali, una dei Santi, tre galee di Genova, tre del. duca di Savoia (la Piemontese, la Margarita e la Duchessa), tre di Malta, dodici galee pontificie noleggiate presso Cosimo de' Medici montate da Cavalieri di Santo Stefano e soldati delle Marche e delle Romagne; infine centocinque galee veneziane con novecentocinque cannoni, undicimila e duecento soldati e settemila marinai.

In totale vi erano duecentonove galee, milleottocentocinque cannoni, ventottomila soldati, dodicimila e novecentoventi marinai e quarantatremila e cinquecento rematori.
Di tutte queste forze la maggior parte era stata fornita dall 'Italia (Stati indipendenti e Stati soggetti), la quale aveva dato centosettantotto galee, milleduecentosettanta cannoni, ventimila soldati, undicimila e duecentoventi marinai e trentasettemila e trecento rematori, il resto, secondo le cifre su riferite, era della Spagna.
Il 16 settembre, dopo lunghe discussioni sulla via da prendere, questa grande flotta, lasciò le acque di Messina e, raccolti nuovi soldati sulle coste calabresi, il 27 dello stesso mese giunse a Corfù dove apprendeva la dolorosa notizia della caduta di Famagosta e dello scempio fatto dei suoi difensori.
Da Corfù l'armata andò nel golfo di Gomenizza, che si apre nelle coste albanesi, e il 4 ottobre andò ad ancorarsi nel porto di Fiscardo, da dove poi ripartì il 6 ottobre, diretta al golfo di Lepanto dov'era la flotta turca comandata da ALI', forte di duecentoventidue galee, sessanta galeotte, settecentocinquanta cannoni, trentaquattromila soldati, tredicimila marinai e quarantamila rematori.

La mattina del 7 ottobre del 1571 la flotta alleata giunse in vista delle Curzolari, isolette poste presso l'imboccatura del golfo di Lepanto, e subito l'armata ottomana uscì e si schierò in ordine di battaglia di fronte al nemico.
Lo schieramento dell'armata alleata aveva una lunghezza di circa tre miglia, il centro era formato da una squadra di sessantuno galee, quasi al suo fianco quella Reale di Spagna guidata da don Giovanni d'Austria, la Capitana pontificia comandata da Marcantonio Colonna, la Capitana di Savoia al comando del Provana, la Capitana di Venezia con Sebastiano Venier e la Capitana di Genova con Ettore Spinola ed Alessandro Farnese; all'ala destra stava una squadra di cinquantatré galee capitanata da Gian Andrea Doria, alla sinistra altrettante navi veneziane sotto il comando di Agostino Barbarigo; di riserva erano trentacinque navi comandate dal marchese di Santa Cruz don Alvaro de Bazan; di avanguardia, a un miglio a mezzo circa dalla linea frontale, stavano sei galeazze al comando di Francesco Duodo.

Della flotta ottomana il centro era comandato dall'ammiraglio supremo ALI', il centro destro da Mehemet Sciaurak, vicerè d'Egitto, il centro sinistro dal bey d'Algeri Ulugh Ali. Grande la determinazione dei Turchi, che, pur essendo forniti di minor numero di cannoni, si affidavano al maggior numero delle loro navi e nella conoscenza del luogo; non meno grande era l'ansia di battersi degli alleati, desiderosi di vendicare i martiri di Famagosta e, confortati dai frati i quali con il Crocifisso in mano benedicevano i combattenti e davano notizie delle indulgenze promesse dal Pontefice.
La battaglia fu ingaggiata verso mezzogiorno. Prime ad entrare in combattimento furono le sei galeazze di Francesco Duodo, le quali, vedendo la flotta ottomana avanzare a semicerchio con lo scopo evidentissimo di avvolgere quella cristiana, aprirono un fuoco violentissimo e ruppero l'ordine serrato dello schieramento nemico. Allora la battaglia infuriò contemporaneamente su tutti i punti della fronte e presto prese l'aspetto di una mischia apocalittica.
Al centro, l'ammiraglia turca si lanciò contro la Reale di Spagna, imitata da altre navi ottomane; in aiuto della capitana spagnola accorsero altri navigli cristiani, fra cui quello di Sebastiano Venica, il quale a capo scoperto combatté valorosamente e contribuì moltissimo all'esito dello scontro. Questo durò a lungo, con un accanimento straordinario; fin quando Ali fu colpito gravemente da una palla di cannone e la sua nave con la ciurma nel panico presto venne fatta prigioniera.

Con accanimento non minore si combatté all'ala sinistra, dove in un primo tempo i cristiani furono quasi sopraffatti anche perché il Barbarigo, sebbene strenuamente difeso da Camillo da Correggio, aveva riportato una gravissima ferita che il giorno dopo doveva causargli la morte; ma i restanti non tardarono a risollevarsi; un impetuoso assalto dato alla nave di Mehemet Sciaurak cambiò la sorti della battaglia, e lo Sciaurak cadde anche lui, come Alì, sotto i colpi di Giovanni Contarini, il suo legno fu colato a picco e la sua squadra anch'essa presa dal panico fu completamente sbaragliata.

Diversamente procedettero le cose all'ala destra. Gian Andrea Doria aveva poca voglia di sferrare battaglia forse per cieca obbedienza agli ordini di Filippo II, che avrebbe voluto che la flotta anziché contro i Turchi andasse contro Tunisi, forse anche per certe segrete trattative corse tra la Spagna e Ulugh aventi lo scopo di staccare quest'ultimo da Costantinopoli. A sua volta Ulugh Alì cercava di evitare il combattimento mosso dalle medesime ragioni ed anche perché voleva che le sue forze rimanessero intatte par difendere le coste del suo regno di Algeri che potevano essere assalite dagli Spagnoli.

L'uno e l'altro pertanto dopo una serie di abili evoluzioni presero il largo; ma una parte della squadra del Doria, formata di veneziani, pontifici, piemontesi e maltesi, ardendo dal desiderio di combattere, si staccò dal resto della flotta genovese ed assali la navi nemiche. Sopraffatta dal numero dei legni avversari ebbe la peggio; ma in suo soccorso si mossero dal centro don Giovanni d'Austria e Marcantonio Colonna; lo stesso Gian Andrea Doria, visti i suoi in pericolo, fu costretto a rivolgersi contro gli Algerini; allora Ulugh Alì, temendo di essere accerchiato, abbandonò il combattimento e le galee che aveva catturate e con venticinque galee e venti galeotte se ne fuggì a Costantinopoli.

Il contegno del Doria fu la sola ombra che offuscò la vittoria cristiana di Lepanto, la quale fu completa. Centodiciassette galee ottomane e circa venti galeotte furono catturate; cinquantasette colate a picco durante la battaglia, cinquanta altre che si erano fracassate contro gli scogli furono prima saccheggiate poi incendiate; quarantamila turchi tra soldati e marinai furono uccisi, ottomila fatti prigionieri e circa diecimila schiavi cristiani furono liberati. Dei capitani nemici, oltre Ali e Sciaurak, trovarono la morte parecchi pascià e il comandante dei Giannizzeri. Ma la vittoria fu pagata a caro prezzo: settemila e cinquecento cristiani perirono, dei quali duemila e trecento veneziani fra cui il Barbarigo e ventisei gentiluomini, quindici galee andarono perdute; i feriti ammontarono a settemilasettecentottantaquattro e tra questi ci fu il CERVANTES, il celebre autore del Don Chisciotte.
Finita la battaglia, la flotta vittoriosa si rifugiò nel porto di Petala per sfuggire ad una tempesta che stava per scatenarsi; non essendo possibile tentare altre imprese per la stagione inoltrata e per le condizioni delle navi, il consiglio di guerra stabilì di far vela verso ponente e il 10 ottobre la flotta entrava nel porto di Santa Maura, poi si recò a Messina. Qui fu fatta la divisione delle spoglie e a Venezia toccarono ventisette galee ed altre navi minori, sessantadue cannoni tra grossi e piccoli e milleduecento schiavi. L'annuncio della sconfitta produsse a Costantinopoli grandissima costernazione e si dice che il sultano Selim rimanesse tre giorni senza prender cibo; però il Gran Visir Mehemet Sokolli non rimase scosso dalla disfatta e al legato veneto Barbaro disse: «Lepanto ci ha solamente tagliata la barba; essa crescerà più folta di prima; Venezia con Cipro ha perso un braccio e questo non cresce più ».

E in verità quell'astuto uomo di Stato non aveva torto. Difatti gli Ottomani, con la sconfitta di Lepanto, non subivano perdite territoriali; in quanto ai danni materiali subiti, questi, date le immense risorse dell'Impero, erano facilmente riparabili, ed infatti l'anno dopo, una nuova flotta turca di oltre duecento navi al comando di Ulugh Alì veleggiava minacciosa sui mari d'Oriente. Due sole cose avevano perduto i Turchi, che non poterono più riacquistare la fama d' invincibilità che tanto aveva loro giovato e la fiducia nelle proprie forze.
Venezia, se aveva perso Cipro, acquistava prestigio e fede in sè stessa: l'uno e l'altra, avrebbero potuto rialzare le sorti della repubblica, se le gelosia degli altri Stati e la tortuosa politica della Spagna non l'avessero costretta più tardi ad una pace, la quale non era quella che dalla strepitosa vittoria di Lepanto si era ripromessa.



http://www.pisahistory.it/gioco/battaglia-lepanto.html

La battaglia di Lepanto del 1571-Le ragioni storiche dello scontro

La battaglia di Lepanto del 1571





Le ragioni storiche dello scontro





Dopo che il 31 maggio 1453 Maometto II aveva conquistato la città di Costantinopoli e con essa il millenario Impero cristiano d'Oriente, i turchi ottomani ritenevano imminente il giorno del loro dominio universale. Nel 1521 si erano impadroniti di Belgrado; nel 1526 avevano conquistato l'Ungheria ed erano arrivati fino alle porte di Vienna.

In Italia avevano invaso e saccheggiato tutte le coste del meridione. Tripoli era già stata tolta agli spagnoli, l'isola di Chio ai genovesi, Rodi ai cavalieri che la possedevano e la stessa isola di Malta, nuova sede dei cavalieri,sarebbe caduta nelle mani turche se Jean de La Valette, Gran Maestro dell'Ordine non l'avesse difesa e salvata con eroico valore.

Nel febbraio 1570 era giunto a Venezia un ambasciatore turco con un ultimatum della Sublime Porta: o la cessione al sultano dell'isola di Cipro o la guerra. Venezia aveva rifiutato con sdegno. Ma dopo undici mesi di assedio il 1 agosto 1571, nell'isola di Cipro era caduta la città di Famagosta. Il patto di resa garantiva la vita ai difensori superstiti, ma quando il comandante turco era penetrato a Famagosta aveva fatto scorticare vivo il comandante della piazza cristiana Marcantonio Bragadin. Il corpo era stato squartato, la pelle di Bragadin era stata quindi riempita di paglia, rivestita con la sua uniforme e trascinata per la città.





Il terrore regnava nel Mediterraneo, l'antico Mare nostrum. La sorte dei cristiani di Cipro era quella che l'Islam sembrava preparare ai cristiani di tutta Europa. Sulla cattedra di Pietro sedeva un teologo domenicano, Michele Ghislieri, salito al pontificato all'inizio del 1566 con il nome di Pio V. Egli valutò la gravità del pericolo e comprese che solo una guerra preventiva (vds. Dottrina Bush) avrebbe salvato l'Occidente. Con parole gravi e commosse esortò le potenze cristiane ad unirsi contro gli aggressori e di questa difesa della cristianià fece l'asse del suo breve pontificato.



Non tutti, però, risposero all'appello. L'espansione dei turchi si sviluppava anche grazie alla complicità decisiva di paesi cristiani, come la Francia (il lupo cambia il pelo...n.d.r.), che in nome della realpolitik, oggi diremmo dei suoi interessi geopolitici, incoraggiava e finanziava i turchi per indebolire il suo tradizionale nemico: la casa imperiale d'Austria. Tuttavia grazie alle preghiere e alle insistenze del pontefice, il 25 luglio del 1570, la Spagna, Venezia e il Papa conclusero l'alleanza contro i turchi. Subito dopo aderirono il duca di Savoia, la Repubblica di Genova e quella di Lucca, il granduca di Toscana, i duchi di Mantova, Parma, Urbino, Ferrara, l'Ordine sovrano di Malta. Si trattava di una prefigurazione dell'unità italiana su basi cristiane, la prima coalizione politica e militare italiana nella storia.





Alla testa della Lega Cristiana fu posto un giovane di 25 anni: don Giovanni d'Austria, figlio naturale di Carlo V e dunque fratellastro del re di Spagna Filippo II. La flotta pontificia, costituita grazie all'aiuto decisivo dei cavalieri di Santo Stefano, era comandata da Marcantonio Colonna, duca di Paliano, a cui il Papa affidò la bandiera della Chiesa. La Santa Lega fu ufficialmente proclamata a Roma nella basilica di San Pietro. Lasciata Messina, dove si era concentrata alla fine di agosto, dopo venti giorni di navigazione con rotta verso levante, la flotta cristiana attaccò il nemico alle undici di mattina di quella domenica 7 ottobre dell'anno 1571.





Lo svolgimento della battaglia



All'alba del 7 ottobre 1571 una gigantesca flotta ottomana, la più numerosa mai schierata nel Mediterraneo, avanzava lentamente, con il vento di scirocco in poppa. Circa 270 galee e una quantità indescrivibile di legni minori formavano un semicerchio, una enorme e minacciosa mezzaluna che occupava tutte le acque che dalle coste montagnose dell'Albania, a nord, arrivano alle secche della Morea, a sud. Al centro della mezzaluna che avanzava, sulla nave ammiraglia, chiamata la Sultana, sventolava uno stendardo verde, venuto dalla Mecca, che recava ricamato in oro per 28.900 volte il nome di Allah.



Di fronte, in formazione a croce, era schierata la flotta cristiana, sulla cui ammiraglia, comandata da don Giovanni d'Austria, garriva un enorme stendardo blu con la raffigurazione del Cristo in Croce. La battaglia durò cinque ore e si decise al centro dello schieramento, dove le navi ammiraglie si speronarono l'un l'altra formando un campo di battaglia galleggiante in cui si susseguirono attacchi e contrattacchi finchè il reggimento scelto degli archibugieri di Sardegna riuscì a sferrare l'attacco decisivo. Alì Pascià fu colpito a morte e sulla Sultana fu ammainata la Mezzaluna e issato il vessillo cristiano.



Si coprirono di valore tra gli altri i Colonna e gli Orsini, sette della stessa famiglia, il conte Francesco di Savoia che cadde in battaglia, il ventitreenne Alessandro Farnese, destinato a divenire uno dei maggiori condottieri del secolo, Giulio Carafa che, preso prigioniero si liberò e si impadronì del brigantino nemico, ed i veneziani tutti che pagarono il maggior tributo di sangue.

Il provveditore veneziano Agostino Barbarigo che comandava l'ala sinistra dello schieramento cristiano, si batté, fino a che non gli mancarono le forze, con una freccia infitta nell'occhio sinistro.Sulla sua ammiraglia, Sebastiano Venier, combatté a capo scoperto e in pantofole perché, risponde a chi gliene chiede il motivo, fanno migliore presa sulla coperta. Ha settantacinque anni e imbraccia la balestra, aiutato da un marinaio per il caricamento dell'arma, un'operazione che era ormai superiore alle sue forze. Sopraffatto dal numero viene soccorso dalle galee di Giovanni Loredan e Caterino Malipiero, che trovano la morte nella lotta.

Al termine della battaglia la Lega aveva perso più di 7.000 uomini, di cui 4.800 veneziani, 2.000 spagnoli, 800 pontifici, e circa 20.000 feriti; i turchi, contarono più di 25.000 perdite e 3.000 prigionieri. Il nome di Lepanto era entrato nella storia. Per la prima volta dopo un secolo il Mediterraneo tornò libero. A partire da questo giorno iniziò il declino dell'impero ottomano.



Nel pomeriggio del 7 ottobre, Pio V che aveva moltiplicato le preghiere a Colei che sempre aveva soccorso i cristiani nelle ore drammatiche della cristianità, stava esaminando i conti con alcuni prelati. D'improvviso fu visto levarsi, avvicinarsi alla finestra fissando lo sguardo come estatico e poi, ritornando verso i prelati esclamare: "Non occupiamoci più di affari, ma andiamo a ringraziare Iddio. La flotta cristiana ha ottenuto vittoria".

Il Pontefice attribuì il trionfo di Lepanto all'intercessione della Vergine e volle che nelle Litanie lauretane si aggiungesse l'invocazione Auxilium christianorum. Anche il Senato Veneziano che non era composto da donnicciole, ma da uomini fieri e rotti a sfidare i più gravi pericoli in mare e in terra, volle attribuire alla Santissima Vergine il merito principale della vittoria e sul quadro fatto dipingere nella sala delle sue adunanze fece scrivere queste parole: Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii, victores nos fecit (non il valore, non le armi, non i condottieri, ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori).



testo tratto dal sito http://www.lepanto.org/batta.php3






http://www.strategiaglobale.com/battaglia_di_lepanto.html


http://www.strategiaglobale.com:80/battaglia_di_lepanto.html

La Battaglia di lepanto e il ruolo di Giovanni Andrea Doria

La Battaglia di lepanto
il ruolo di Giovanni Andrea Doria



La battaglia di Lepanto (1571) rappresenta l'evento bellico più noto a cui abbia partecipato il Principe Giovanni Andrea Doria ma costituisce anche un punto focale della storia europea sotto molteplici aspetti (politici, militari, religiosi e tecnologici).





Quadro storico europeo


Gli eserciti turchi dopo l'occupazione di Costantinopoli (1453) sembrano inarrestabili. Vengono soggiogate Serbia e Bosnia. In Albania Giorgio Castriota "Scanderbeg" resiste sino al 1468. Genova e Venezia perdono molte delle loro colonie orientali. Tra il 1512 ed il 1520 vengono conquistate Siria, Arabia e Egitto.

Tra il 1520 ed il 1560 con Solimano II "il magnifico" l'Impero Ottomano raggiunge il massimo splendore a spese delle nazioni europee e dei popoli confinanti.

Nel 1521 viene occupata Belgrado, nel 1522 è la volta di Rodi, nel 1526 si svolge la battaglia di Mohacs con conseguente avanzata in Ungheria.

Austria, Polonia e Venezia diventano la prima linea davanti agli ottomani.

Nel 1529 viene assediata Vienna, nel 1533 si procede alla spartizione dell'Ungheria ma anche nel vicino oriente i turchi non si arrestano conquistando Baghdad e la Mesopotamia.

Nel 1566 la fortezza di Seghedino cade in mani turche e nel 1568 gli Asburgo vengono costretti a pagare un tributo annuo.

Il fiorente Impero Ottomano affonda le radici nell'oppressione e nella violenza. Le innumerevoli guerre di conquista vengono alimentate con decine di migliaia di schiavi europei e africani che rinforzano le armate e alle popolazioni cristiane viene imposta la consegna di un bambino ogni cinque per costituire le truppe giannizzere.

Per ovviare la mancanza di classi amministrative, commerciali e industriali, vengono tollerate le popolazioni locali senza costrizione alla conversione ma sotto imposizione di obbedienza e tassazione.

Il 25 maggio 1571 per volontà del Pontefice viene costituita la Lega Santa a cui aderiscono: la Santa Sede, la Spagna, la Repubblica di Genova, la Repubblica di Venezia, l'Ordine di Malta, il Duca di Savoia ed altri stati italiani. La costituzione dell'alleanza tra nazioni e casate spesso in pessimi rapporti tra loro sottolinea la gravità del momento storico.

La Spagna fornisce il maggior contributo in termini finanziari, di navi e uomini nonostante i suoi interessi politici ed economici siano ormai rivolti verso le Americhe.

Sarebbe opportuno ricordare però che almeno fino alla metà del 1500 più del 50% delle disponibilità finanziarie spagnole erano frutto di prestiti forniti dai genovesi.

Ultimo evento bellico che prelude la battaglia di Lepanto è la conquista di Cipro (1571).





Tecnologie utilizzate


All'epoca, la principale nave da guerra nel Mediterraneo è la galea. Il vascello in questione, generalmente o quasi esclusivamente di uso militare e mediterraneo, rappresenta l'unità di base delle flotte. La propulsione mista vela e remi permette la navigazione anche in assenza di vento ma molto probabilmente le vele vengono utilizzate durante gli spostamenti e i remi quasi esclusivamente in battaglia o in manovra.

La galea ha solitamente uno scafo lungo, affusolato e leggero, due alberi con vele latine e potenzialmente è molto veloce soprattutto con la spinta a remi ma probabilmente per brevi periodi dettati dalla forza dei rematori.

L'artiglieria più pesante posizionata principalmente a prua e fissa, plausibilmente ne condiziona l'utilizzo solo nel moto in avanti rendendo necessario l'abbordaggio e l'uso di armi da fuoco minori nel confronto tra fiancate.

E' lecito pensare che dopo un primo scambio di "fuoco pesante", le galee si speronino alla ricerca dell'abbordaggio rendendo difficoltose successive manovre in conseguenza dei danni allo scafo e ai remi. La battaglia probabilmente prosege come in uno scontro terrestre tra avanzate e ritirate da un "legno" ad un altro. Si può ipotizzare che a conclusione di uno scontro, i vascelli impegnati, anche se vittoriosi, debbano ricorrere a notevoli riparazioni.

Il vascello più importante dello schieramento cristiano, è la galeazza veneziana. Al contrario della galea comune, questa è sovradimensionata, con ponte a coprire i banchi dei rematori, parzialmente "corazzata" e pesantemente armata non solo a prua e a poppa ma anche sulle fiancate. Le linee in realtà possono trarre in inganno chi non le conosce confondendole con vascelli da carico, cosa che probabilmente accadde ai turchi. Solo sei di queste unità rinforzano lo schieramento cristiano ma saranno tanto devastanti sulle galee nemiche quanto sul morale dei loro equipaggi. Per assurdo, con la galeazza si raggiunge l'apice dell'evoluzione della galea, ma nel contempo rappresenta "il canto del cigno". Le galee con la loro propulsione a remi verranno progressivamente sostituite da "velieri" e quindi abbandonate.

Le artiglierie pesanti utilizzate all'epoca sui vascelli si crede possiedano un buon rapporto gittata/efficacia fin quasi al chilometro se puntate su schieramenti compatti. Naturalmente il rapporto gittata/efficacia dovrebbe peggiorare notevolmente puntando il pezzo su singole galee con ampia libertà di manovra.

Per quel che riguarda le armi di "piccolo calibro", all'importanza della gittata è lecito pensare che si debba sostituire la capacità di penetrazione delle protezioni individuali nemiche, l'abilità nella mira e la velocità di ricarica del soldato.





Prima della battaglia


Don Giovanni d'Austria viene nominato comandante della flotta cristiana. Ventiseienne figlio illegittimo del defunto Imperatore Carlo V° e fratellastro del regnante Filippo II° è tra i più abili condottieri dell'epoca. Riuscendo a mantenere assieme gli alleati ottiene già una grande vittoria diplomatica.

Marcantonio Colonna trentaseienne comanda la flotta pontificia composta da galee toscane noleggiate.

Giovanni Andrea Doria trentunenne figlio di Giannettino Doria (morto durante la congiura dei Fieschi), nipote ed erede del grande Ammiraglio Andrea Doria comanda la flotta spagnola per l'Italia.

Agostino Barbarigo comanda il corno sinistro dello schieramento.

L'anziano Sebastiano Venier settantacinquenne comanda la flotta veneziana.

Pietro Giustiniani comanda la flotta dell'Ordine di Malta.

Ettore Spinola comanda la flotta genovese.

Andrea Provana di Leinì comanda la flotta dei Savoia.

Partecipano anche: Pietro Lomellini, Antonio Canal, Giorgio Grimaldi e molti altri personaggi appartenenti alle più prestigiose famiglie nobili italiane.

La flotta cristiana si compone di:
6 galeazze;
oltre 200 galee (205?);
30 navi da carico;
circa 13000 marinai;
circa 44000 rematori;
circa 28000 soldati;
circa 1800 cannoni.

A fine agosto la flotta cristiana comincia a radunarsi a Messina e il 16 settembre, per anticipare la cattiva stagione, salpa alla ricerca del nemico.

Il 26 settembre la flotta giunge nelle acque di Corfù ormai devastata dal corsaro Ulugh Alì ma la notizia peggiore riguarda la caduta di Famagosta (Cipro). La notizia è giunta con notevole ritardo ed è terribile. Il 18 agosto Mustafà Pascià conquista la città promettendo la salvezza per i difensori ma vigliaccamente si rimangia la parola: fa uccidere gli uomini, rende schiave le donne, tortura il Governatore Bragadin, lo fa scuoiare vivo e impagliare per poterlo esporre.

La flotta cristiana prosegue nonostante il maltempo verso Cefalonia dove sosta alcuni giorni. Il 6 ottobre le navi giungono davanti al Golfo di Patrasso.





Le avanguardie cristiane riportano l'avvistamento della flotta ottomana e si decide di dar battaglia.

Il mattino seguente (7/10) le due flotte cominciano a schierarsi. La preparazione è lunga e difficoltosa e solo intorno a mezzogiorno può cominciare la battaglia.





Schieramento cristiano


Da nord (sottocosta) a sud (al largo):

Corno sinistro - 53 galee e 2 galeazze in posizione avanzata;
comandato da Barbarigo;
tra le galee è presente la capitana di Venezia;

Centro - 61 galee e 2 galeazze in posizione avanzata;
comandato da Don Giovanni D'Austria (comandante supremo);
tra le galee sono presenti le capitane di Lomellini, Sauli, Genova (Spinola), Venezia (Venier), Santa Sede (Marcantonio Colonna), Savoia, Grimaldi e Ordine di Malta;

Corno destro - 53 galee e 2 galeazze in posizione avanzata;
comandato da Giovanni Andrea Doria;
tra le galee sono presenti le capitane di Sicilia e Doria;

Retroguardia - 38 galee;
comandata dal Marchese di Santa Cruz.








Schieramento turco


Da nord (sottocosta) a sud (al largo):

Ala destra - 55 galee
comandata da Shoraq (Scirocco);

Centro - 90 galee;
comandato da Alì Pascià (comandante supremo)

Ala sinistra - 90 galee
comandata da Ulugh Alì (probabilmente un calabrese che ha abiurato il cattolicesimo);

Retroguardia - 10 galee e 60 navi minori
comandata da Dragut (omonimo del noto corsaro);





La battaglia


Il vento cambia direzione e all'inizio dello scontro finalmente volge in favore dei cristiani.

La prima mossa spetta ai turchi che avanzano ignorando le potenzialità delle galeazze lasciate volutamente isolate davanti allo schieramento cristiano per poter esprimere al meglio la loro forza.

Scambiate per innocue navi da carico, scaricano sugli ottomani un volume di fuoco probabilmente mai visto prima. Al contrario delle normali galee, ogni lato è munito di artiglierie principali ed il risultato è devastante: morti, feriti, relitti e terrore.





I turchi perdono di compattezza tra le proprie fila e abbandonano al loro destino i vascelli colpiti. Alì Pascià comprende l'impossibilità di impegnare le galeazze e ordina di superarle in gran fretta.

Le linee ottomane, decimate ma ancora combattive, superano le galeazze e cercano lo scontro diretto con lo schieramento cristiano.

Giocato il fattore sorpresa, Don Giovanni D'Austria passa alla tattica classica.

Ora anche i cristiani avanzano a tutta forza incontro ai turchi. I compiti dei tre gruppi sembrano abbastanza chiari ...





1. Barbarigo alla guida del corno sinistro e posizionato sottocosta deve parare il colpo di "Scirocco", impedire che il nemico possa insinuarsi tra le sue navi e la spiaggia per accerchiare la flotta cristiana. La manovra ha solo un parziale successo e lo scontro si accende subito violento. La stessa galea di Barbarigo diventa teatro di un epica battaglia nella battaglia con almeno due capovolgimenti di fronte. Ferito gravemente alla testa, Barbarigo resiste alla morte sino all'arrivo degli aiuti che gli permettono di perire vittorioso nel suo compito. "Scirocco" viene catturato, ucciso e decapitato.

2. Al centro degli schieramenti Alì Pascià cerca e trova la galea di Don Giovanni d'Austria la cui cattura risolverebbe definitivamente lo scontro. Contemporaneamente altre galee impegnano Venier e Marcantonio Colonna. Sulla galea di Don Giovanni si ripete lo scontro cruento a cui ha partecipato Barbarigo. Più volte la nave vede avanzare e poi ritirare i due avversari. La svolta si ha con l'arrivo della riserva del Marchese di Santa Cruz e delle galee di Venier e Marcantonio Colonna disimpegnatisi dai rispettivi avversari. Alì Pascià, già ferito, si suicida per evitare l'umiliante cattura. La testa del defunto comandante ottomano viene esposta contro la volontà di Don Giovanni per porre termine alla battaglia. Anche la bandiera della galea di Alì Pascià cade in mani cristiane a testimonianza della vittoria.

3. Al largo, la situazione è meno cruenta ma un po' più complicata. Giovanni Andrea Doria dispone grossomodo dello stesso numero di galee del Barbarigo ma davanti a se ha quasi il doppio di nemici e oltretutto, la disponibilità di più ampi spazi di manovra rende più probabile l'accerchiamento da parte dell'ala sinistra turca di Ulugh Alì. Giovanni Andrea Doria ha l'analogo compito di Barbarigo, deve impedire a tutti i costi che gli ottomani possano circondare il centro di Don Giovanni e possibilmente chiudere da sud sul centro ottomano. Giovanni Andrea Doria deve coprire un'area più vasta e ciò lo costringe a manovrare al largo. Ulugh Alì approfitta della situazione, si insinua tra il centro ed il corno destro riuscendo a sopraffare alcune galee. E' sua intenzione aggirare e sgominare il corno destro cristiano per poi dirigere la prua verso le posizioni di Don Giovanni d'Austria. Lo scontro al largo si accende e divampa cruento. Le galee di Ulugh Alì devono affrontare non solo quelle di Giovanni Andrea Doria ma anche quelle dell'onnipresente riserva del Marchese di Santa Cruz. Lo scontro al largo si protrae per più di un'ora ma è proprio il temibile Ulugh Alì, considerato il miglior comandante ottomano, a porvi fine. Intuita la disfatta, rivolge la prua, che avrebbe voluto puntare su Don Giovanni d'Austria, verso il mare aperto e fugge a Costantinopoli.





4. Il teatro della battaglia si presenta come uno spettacolo apocalittico: relitti in fiamme, galee ricoperte di sangue, morti o uomini agonizzanti. Sono trascorse quasi cinque ore quando la battaglia ha termine con la vittoria cristiana. Don Giovanni d'Austria riorganizza la flotta per proteggerla dalla tempesta che minaccia la zona e invia un paio di galee a Messina per annunciare la vittoria. Ulugh Alì è in rotta verso Costantinopoli. L'Europa è salva e l'Impero Ottomano è stato finalmente fermato.








Conseguenze per G. A. Doria


La vittoria non porta però i giusti riconoscimenti a Giovanni Andrea Doria. Le infamanti accuse di scarso impegno o incapacità se non addirittura accordo con il nemico fomentate non a caso dai veneziani, lasciano il segno influenzando anche il Pontefice. E' possibile che la prima conseguenza sia il rinnovo dell'asiento (contratto con la Spagna) macchiato dalla sostituzione da Consigliere di Don Giovanni.

Risulta però difficile pensare che le accuse mossegli vengano in realtà minimamente credute dai contemporanei dato che negli anni successivi:
Don Giovanni d'Austria lo vuole a suo fianco nell'impresa di Tunisi;
Filippo II° di Spagna lo considera suo "referente" a Genova;
l'Imperatrice d'Austria viaggia sulle sue galee;
Filippo II° lo nomina Generale del Mare come il defunto zio Andrea;
Orazio Pallavicino lo contatta come mediatore per la pace tra Spagna e Inghilterra (infruttuoso);
Filippo II° lo nomina membro del Consiglio di Stato;
Filippo III° lo incarica di guidare la spedizione contro Algeri;
per due volte i regnanti spagnoli rifiutano le sue dimissioni per motivi di salute;
dopo la terza richiesta, accettata, di dimissioni, ancora una volta la Spagna lo incarica di occuparsi dei disordini monegaschi.

Tutti incarichi provenienti da chi deteneva il potere senza la necessità di esprimere falsa adulazione. Incarichi prestigiosi, da assegnare a uomini di fiducia, tuttavia la diffamazione ha lasciato traccia nei libri di storia.





Considerazioni varie


La decisone di Giovanni Andrea Doria di manovrare al largo staccandosi dal centro cristiano sembra essere più una necessità che una scelta.

Le due flotte si schierano in linea ad eccezione delle riserve e da nord (sottocosta) a sud si contrappongono:
53 galee (Barbarigo) - 55 galee (Scirocco);
61 galee (Giovanni d'Austria) - 90 galee (Alì Pascià);
53 galee (Giovanni Andrea Doria) - 90 galee (Ulugh Alì).

Considerando le proporzioni tra gli schieramenti [167(?) - 235(?)], è plausibile che gli ottomani si trovino già inizialmente in condizione di accerchiare i cristiani. La manovra al largo di G. A. Doria diventerebbe quindi necessaria per fermare Ulugh Alì e il conseguente varco tra corno destro e centro cristiano in cui si infila l'ala sinistra ottomana ne è una conseguenza inevitabile. Sarebbe da approfondire anche l'indicazione secondo cui alcune galee del corno destro si sarebbero rifiutate di seguire Giovanni Andrea Doria puntando sul centro della battaglia. Tra le galee viene segnalata la Capitana di Malta ma questa sembra essere invece indicata come appartenente al centro già dall'inizio in una posizione marginale dello schieramento.





due carriere a confronto
Giovanni Andrea Doria e Sebastiano Venier



Abitualmente nei resoconti della battaglia di Lepanto e nei profili dei protagonisti, si lascia intendere o immaginare una certa esperienza bellica di Sebastiano Venier. Dai vari testi viene fatta risaltare l'importanza dell'Ammiraglio veneziano e posta in ombra la figura di Giovanni Andrea Doria se non per evidenziarne eventuali comportamenti scorretti e/o sbagliati. Alla fine della battaglia, Venier emerge come soggetto protagonista e positivo mentre Giovanni Andrea Doria risulta elemento negativo o al più secondario.

Le varie fonti non riportano però precedenti bellici di Sebastiano Venier che sembra quindi improvvisarsi Ammiraglio. Al contrario l'esperienza bellica e navale di Giovanni Andrea Doria risulta quasi ventennale. Certo è che il carattere a dir poco brusco e poco accondiscendente del Venier mette a rischio l'alleanza prima ancora dello svolgersi della battaglia.

Alcuni brani tratti da "i Dogi di Venezia nella vita pubblica e privata" di Andrea da Mosto sembrano però descrivere meglio l'Ammiraglio veneziano. Viene sì sottolineato il suo valore nello scontro ma si ricorda anche la sua carriera quale uomo di legge, "amministratore" e "politico". Si rammenta l'inesperienza navale e bellica non avendo mai servito sulle galee. Viene anche riportata una "lagnanza" del Venier in merito ad un'ispezione della propria galea da parte di Giovanni Andrea Doria inviato da Don Giovanni d'Austria. Questo fatto lascia supporre una maggiore fiducia nella capacità di Giovanni Andrea Doria rispetto a quelle di Sebastiano Venier.

Credo che i rapporti sugli accadimenti di Lepanto, probabilmente di fonte veneziana, abbiano nel tempo alterato l'autentico peso storico dei due personaggi a discapito di Giovanni Andrea Doria.





Note


Gli appunti sulla battaglia di Lepanto sono stati confrontati e verificati con testi e analoghe ricostruzioni che tuttavia non di rado risultano tra loro discordi.

Con il termine vascello si intende il sinonimo di nave.

Segnalazioni, contributi ed eventuali correzioni sono sempre gradite.


Ghe.Ra.

13 01 2006

[aggiornamento - due carriere a confronto] 26 01 2007








LA GALEA A LEPANTO
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La battaglia di Lepanto


La battaglia di Lepanto



All’alba del 7 ottobre 1571, esattamente quattrocentodieci anni fa, aveva inizio, nelle acque di Lepanto, porto della costa ionica, situato di fronte al Peloponneso e non distante da Corfù, una delle più grandi battaglie navali della storia, frutto glorioso degli sforzi della Cristianità controriformistica. Non pare affatto fuori luogo ricordarne l’anniversario, e ricordarlo nel modo più serio, cioè riassumendone la storia e inquadrando l’evento nella situazione del Mediterraneo negli anni immediatamente precedenti e seguenti, così da comprenderlo meglio e da poterlo valutare nella sua portata e nel suo significato.



La Cristianità e il Mediterraneo intorno alla metà del Cinquecento

Intorno alla metà del secolo XVI la situazione della Cristianità era delle più difficili. Il secolo si era aperto, è vero, all’insegna delle promettenti conquiste di nuove terre in Africa, in Asia, in America (1). Ma, già nel secondo decennio, l’incendio acceso dall’ex monaco Martin Lutero era divampato in tutta Europa, approfittando del fertile terreno costituito e preparato da molte tendenze affermatesi nel secolo precedente: dalla diffusione di un movimento culturale umanistico sostanzialmente acristiano, quando non anticristiano (2); alla decadenza della scolastica, con prevalenza in campo filosofico di un neoplatonismo paganeggiante e magico-esoterico o di un aristotelismo averroista; dalla decadenza delle élite aristocratiche e guerriere alla diffusione, nei vari ceti sociali, di una ricerca del lusso e dei piaceri, dal ricorrere di gravi crisi nella Chiesa, come l’esilio del papato ad Avignone e il successivo lungo scisma, alle difficoltà dei Papi rinascimentali di portare a termine una riforma della Chiesa, a parte qualche intervento pur significativo (3).

Mentre Carlo V tentava, attraverso una serie continua di guerre, di salvare l’unità dell’Impero, la Chiesa avviava, col grande Concilio di Trento, insieme uno sforzo di, rinnovamento e di riaffermazione solenne delle verità dogmatiche minacciate dall’errore protestante. Come spesso è accaduto nella sua bimillenaria storia, essa trovava al suo interno una straordinaria capacità di reazione, documentata dal fiorire di santi e di nuovi ordini religiosi, dei quali il più importante fu certamente la Compagnia di Gesù, fondata da sant’Ignazio di Loyola, destinata a rappresentare l’arma di punta della riconquista cattolica di una parte dell’Europa.

Questa d’altra parte era tormentata dalle contrapposizioni politiche fra Stati cristiani. Così, la Francia — del resto tormentata da decennali e sanguinose guerre di religione — non esitava, talora ad appoggiarsi, nella sua politica antiasburgica, a principati protestanti, e giungeva a vedere con qualche sollievo la forza minacciosa dei turchi nel Mediterraneo.

In questo mare, poi, al pericolo turco si aggiungevano i divergenti interessi, anche comprensibili, degli altri Stati cristiani. Così, mentre Venezia era preoccupata soprattutto delle minacce e degli attacchi che i sultani e le loro forze portavano alle posizioni che essa conservava nello Ionio e nell’Egeo, la Spagna si preoccupava in particolare della presenza musulmana nel bacino occidentale del Mediterraneo, cercando di combatterla nelle sue basi nordafricane (4). Quando la generale situazione europea consentì a Carlo V di tentare di assumere una contro-iniziativa nel Mediterraneo, essa si articolò in due grandi spedizioni contro Tunisi e contro Algeri, delle quali solo una poté considerarsi riuscita (5).

È questo un primo elemento da tenere presente: la vittoria di Lepanto e, prima ancora, la costituzione di una flotta congiunta, non fu il risultato di interessi politici convergenti. Essi, semmai, divergevano, come si vide negli anni precedenti e seguenti la battaglia stessa. Essa fu piuttosto il frutto di scelte coraggiose e responsabili di alcuni principi e uomini politici e militari cristiani, nonché della persistenza, ancora notevole, anche a livello, popolare, dello spirito di crociata (6).

Comunque, dalla fine del Trecento, l’espansione turca si era fatta sempre più minacciosa e, pur avendo conosciuto qualche battuta di arresto — sia per vittorie cristiane che per alcune crisi interne —, nel complesso essa appariva quasi inarrestabile, mentre, negli intervalli tra le vere e proprie guerre, un continuo stillicidio di incursioni, attacchi corsari, saccheggi, catture di schiavi, massacri, manteneva, sui mari e lungo le coste, il terrore nei confronti degli aggressivi infedeli. Ed è questo un secondo elemento da tenere presente per valutare Lepanto: il senso di liberazione provato non solo e non tanto per la scomparsa di un pericolo — che fu, come vedremo, temporaneo —, ma anche per la prova raggiunta che fermare i turchi, volendo, era possibile.



L’assedio di Malta nel 1565

Nella impossibilità di rievocare in questa occasione il lungo elenco di vittorie e sconfitte, di piccoli e grandi episodi, di tentativi di sforzi comuni e di prevalenze di interessi particolari, mi pare utile prendere il 1565 come anno di avvio del racconto degli eventi che culminarono nella giornata di Lepanto. Ciò soprattutto per l’importanza che ebbe il fallimento del tentativo turco di conquistare Malta, tentativo che ebbe luogo proprio in quell’anno. Si può ben dire che esso segnò la fine di un periodo di netta prevalenza turca e l’avvio di un’azione cristiana di controffensiva, ancorché marcata da quei ritmi lenti e da quelle diffidenze reciproche di cui ho sopra fatto cenno (7).

L’importanza di Malta non era legata soltanto alla perdita eventuale di una posizione geograficamente e strategicamente del massimo rilievo, ma anche al fatto che l’isola era la base di quell’ordine militare dei cavalieri di S. Giovanni di Gerusalemme il quale, adattandosi alle nuove circostanze, non aveva perso il suo antico spirito e il senso della sua tradizione, legati alle Crociate e alla Terrasanta. Le sue non numerose galee agivano con decisione sul mare, impegnate regolarmente in una spesso vittoriosa, sempre fastidiosa contro-guerriglia navale, mentre le sue basi costituivano un punto d’appoggio vitale per tutte le navi cristiane (8).

L’attacco a Malta, con tutte le forze turche disponibili, fu deciso in persona dal vecchio Solimano, detto il Magnifico, per vendicare i danni patiti per opera dei Cavalieri di Malta e per dare prova che, dopo vari anni di regno, era ancora capace di sferrare offensive in grande stile contro il mondo cristiano; ciò benché, tra i suoi consiglieri, ve ne fossero alcuni contrari, timorosi delle grandi capacità militari dei Cavalieri — dimostrate anche durante il lungo assedio turco di Rodi — e favorevoli, semmai, ad attaccare le posizioni spagnole di Tunisi e di La Goletta, magari con una manovra diversiva contro Otranto. Comunque, il sovrano turco non era un avventato e si preoccupò di garantirsi la neutralità della Francia e di Venezia (9).

La flotta turca si mosse con grande velocità e rapidità, mentre in Occidente ci si interrogava sui possibili obiettivi che essa avrebbe potuto perseguire; a Malta, allorché il 18 maggio 1565 la immensa flotta turca si presentò davanti all’isola, non erano stati fatti quei preparativi militari — perfezionamento delle opere difensive già esistenti, ammasso di viveri e munizioni — che sarebbero stati dettati dalla consapevolezza di dovere affrontare un così terribile assedio.

In altra occasione, semmai, racconterò in dettaglio le vicende della resistenza dei Cavalieri e dei molti episodi degni di essere conosciuti (10). Qui basterà dire che essa fu eroica, talora ai limiti dell’incredibile. Uno storico, certo non accusabile di facili entusiasmi o di intenti apologetici, Fernand Braudel, dopo aver esposto come la situazione si presentasse favorevole ai turchi, non esita a scrivere: «Ma il gran maestro, Jean Parisot de la Vallette, e i suoi cavalieri si difesero meravigliosamente. Il loro coraggio salvò tutto» (11).

In effetti, quasi tutta l’isola fu occupata, tranne alcune fortificazioni che resistettero a oltranza, nonostante i violenti bombardamenti e i ripetuti assalti. I difensori del piccolo forte di Sant’Elmo morirono tutti, ma ai turchi fu necessario più di un mese per conquistarlo. Il potente forte di San Michele resistette ancora più a lungo, anche grazie alle coraggiose sortite del gran maestro e di un pugno di cavalieri che gettavano il panico nelle fila del grande esercito turco e alleggerivano la pressione degli assedianti.

Malta ebbe così il necessario respiro. Poterono arrivare i primi rinforzi inviati dal viceré di Napoli, don Garcia de Toledo. I turchi decisero di rinunciare all’impresa, abbandonando l’isola il 12 settembre.

È stato scritto che «la vittoria delle armi cristiane — vittoria piena e decisiva — aveva richiesto dolorosi sacrifici: duecentodieci i cavalieri caduti, sessantanove i serventi d’arme morti e, diciassette i dispersi, cinque capellani caduti, cui devono essere aggiunti i soldati morti in combattimento dei quali settemila maltesi e duemilacinquecento di altre nazioni» (12). Ma Solimano il Magnifico, il conquistatore di Rodi e di Belgrado, di Buda e di Tabriz, era stato sconfitto e il mito della invincibilità delle sue armate era stato scosso.



La Lega Santa

Tuttavia, gli avvenimenti del 1565, pur favorevoli, nelle loro conclusioni, alle armi cristiane, avevano confermato i pericoli che derivavano dalla disunione politica e militare della Cristianità. La vittoriosa resistenza di Malta fu un motivo di incoraggiamento per la riscossa cristiana, ma anche un campanello di allarme. Ma altri fattori resero possibile la grande giornata di Lepanto, fra i quali, a parere di quasi tutti gli storici, anche non cattolici, decisiva fu l’azione di san Pio V, salito al pontificato all’inizio del 1566.

Il nuovo Papa era nato presso Alessandria nel 1504. Entrato giovane nell’ordine domenicano, si era distinto per l’austerità della vita e l’impegno nella difesa del cattolicesimo. Lo notò il cardinale Carafa, il quale, nel 1551, lo fece nominare commissario generale dell’Inquisizione; divenuto questi Papa con il nome di Paolo IV (1555-1559), nominò lo stimato padre Michele prima cardinale e, poi, grande inquisitore. Fu, invece, messo da parte dal successivo Papa, Pio IV, il quale, se pure ebbe il merito di chiudere il Concilio di Trento e di avviarne l’applicazione, seguiva una linea più moderata del suo predecessore. L’elezione del cardinale Ghislieri all’inizio del 1566 costituì, perciò, una sorpresa. Essa, dovuta in buona parte alla influenza in conclave di san Carlo Borromeo, segnò la definitiva affermazione, in seno alla Chiesa cattolica, di quelle forze che perseguivano lucidamente ed energicamente una strategia di contro-riforma basata sul rinnovamento della Chiesa stessa: sulla integrale applicazione delle decisioni di Trento; su un’azione, improntata a severità e decisione, di difesa della Cristianità sia sul piano esterno che sul piano interno, a tutti i livelli, da quello politico a quello culturale (13).

Fedele allo spirito di crociata e perfettamente consapevole della minaccia turca — rinnovata, dopo la morte di Solimano, dal nuovo giovane sultano, Selim, salito al trono nel 1566 —, san Pio V si adoperò in ogni modo per appianare i contrasti tra le potenze cristiane mediterranee e per spingerle a uno sforzo comune. Di lui Fernand Braudel ha giustamente scritto: «Certo, non un papa del Rinascimento: un’età ormai finita» (14). Meno giustamente, mi sembra, aggiunge che egli fu «intransigente e visionario» (15); intransigente certamente, ma visionario è termine equivoco, nella misura in cui sembra alludere non soltanto alla sua santità e alla sua tensione spirituale, ma anche a una astrattezza che la sua azione non ebbe. È spesso, purtroppo, con accuse simili che vengono liquidati i progetti la cui magnanimità spaventa; e si fanno valere le ragioni di una pseudo-prudenza politica, le quali sono, sovente, ben più irreali e astratte, anche se molto più comode.

Intanto, mentre le guerre di religione infuriavano in Francia e nei Paesi Bassi, l’espansione turca riprendeva minacciosa, non solo sul mare, ma anche alle frontiere ungheresi dell’impero. Inoltre, non senza sospetti di manovre turche, una rivolta dei musulmani di Granada, scoppiata nel 1569 si estendeva a gran parte dell’Andalusia, protraendosi a lungo.

Mentre le forze spagnole erano impegnate in questa difficile guerra, alla fine vinta sotto la guida di don Giovanni d’Austria — venticinquenne fratellastro del re di Spagna Filippo II —, Tunisi cadeva in mano musulmana e i turchi si apprestavano ad attaccare Cipro, approfittando delle difficoltà di Venezia, della quale, tra l’altro, era bruciato quasi completamente il famoso Arsenale, per un incendio di cui non si può escludere l’origine dolosa (16). Nel luglio, in effetti, i turchi sbarcavano a Cipro e nel settembre conquistavano la capitale, Nicosia. La resistenza cristiana continuò nella più fortificata Famagosta, sotto la guida dell’eroico Marco Antonio Bragadin, poi destinato a orrendo supplizio quando, nell’anno successivo, la città dovrà cadere, nonostante le promesse e i patti.

San Pio V colse l’occasione dell’attacco a Cipro per superare la politica, ormai insufficiente, dei piccoli e occasionali aiuti. Fin dall’inizio perseguì la costituzione di una vera e propria lega. Le trattative furono lente; bisognava superare interessi divergenti. Alla fine la Sacra Lega fu firmata il 20 maggio 1571, nonostante gli sforzi della Francia, che cercava di dissuadere Venezia; nonostante la riluttanza di Filippo II a impegnarsi nel Mediterraneo orientale; nonostante lo scetticismo dei veneziani, rafforzato da una deludente campagna fiaccamente condotta nell’autunno del 1570; nonostante i contrasti tra il granduca di Toscana Cosimo I e il sovrano spagnolo. Ed essa ebbe anche rapida attuazione, nonostante le obbiettive difficoltà di radunare e concentrare una forza ingente, come previsto dall’accordo e come necessario per la situazione, costruendo e armando navi, arruolando marinai e soldati, provvedendo ai rifornimenti resi tanto più difficili, in quanto il raccolto del 1570 era stato cattivo nei paesi spagnoli.



La battaglia di Lepanto

La flotta cristiana riuscì a concentrarsi a Messina alla fine di agosto del 1571. Presto, se si considerano le difficoltà che dovettero superarsi; troppo tardi, secondo i più prudenti tra i condottieri cristiani: Requesens, inviato personale di Filippo II, e Gian Andrea Doria consigliavano di limitarsi a un atteggiamento difensivo; nello stesso senso scriveva da Pisa don Garcia de Toledo. «Ma don Giovanni prestò ascolto soltanto ai capi veneziani e a quei capitani spagnuoli della sua cerchia che insistevano per l’azione; e, presa la decisione, si dedicò al compito con l’ardore esclusivo del suo temperamento» (17). In effetti, fu la sua energia, sostenuta dal fascino della sua personalità e dalla naturale attitudine al comando, a soffocare sul nascere riaffioranti contrasti tra capitani e tra equipaggi. Fu la sua volontà a perseguire lo scontro, andando a cercare l’armata nemica. Furono, poi, il suo coraggio e il suo valore militare a giocare un ruolo molto importante nella battaglia stessa.

Così, la flotta cristiana andò a cercare quella turca, la quale, dopo essersi spinta fino a metà Adriatico, era rientrata a Lepanto, per imbarcare nuovi equipaggi e nuovi viveri. La flotta cristiana era composta da duecentootto galee, quella turca da duecentotrenta. Centodieci galee avevano comandanti veneziani, anche se, per la scarsezza di uomini, gli equipaggi erano stati rinforzati con truppe provenienti dagli Stati spagnoli, in specie per il settore degli archibugieri. Trentasei provenivano da Napoli e dalla Sicilia; ventidue da Genova, al comando del Doria; ventitrè dagli Stati pontifici e da altri Stati italiani (18); quattordici dalla Spagna in senso stretto e tre da Malta (19).

La superiorità numerica, gli ordini avuti dal sultano e il suo temperamento personale indussero il comandante in capo della flotta turca, Alì, a non sottrarsi al combattimento, pur se nell’ambito dei comandanti turchi non poche voci si erano espresse in senso contrario.

Mentre le flotte si avvicinavano fu inalberato sulla galea del comandante in capo dell’armata cristiana (20) lo stendardo della Lega, offerto da san Pio V, che recava in campo cremisi il Crocifisso con, ai piedi, le armi del Pontefice, di Venezia e della Spagna. Don Giovanni e il comandante pontificio, Marcantonio Colonna, imbarcatisi su due piccoli e veloci legni, percorsero tutto lo schieramento, ricordando la natura divina della causa per cui combattevano e che il Crocifisso era il loro vero comandante. A bordo, i cappellani confessavano e i capitani incitavano; gli equipaggi lanciavano grida di guerra (21).

Un contemporaneo ricorda che nelle galee cristiane «tuttavia si toccavano assiduamente gli tamburi e ogni altra sorte di istrumenti», aggiungendo che esse «vogavano in bellissima ordinanza», cioè stando molto vicine, in modo da impedire la penetrazione di gruppi di navi nemiche (22). Il mare si calmò improvvisamente, e ciò parve miracoloso agli esperti di mare. La battaglia si accese, dopo che dalle imbarcazioni ammiraglie erano partiti i primi colpi di artiglieria.

Mentre Gian Andrea Doria, a capo dell’ala destra dello schieramento cristiano, era costretto ad allargarsi per evitare la manovra di aggiramento tentata dal corno sinistro dello schieramento turco, comandato da Euldj-Ali (23), la battaglia si decise nel centro. Le artiglierie giocarono un ruolo tutto sommato secondario, anche se la superiorità di fuoco delle sei galeazze veneziane, pesantemente armate, rimorchiate in prima fila, ebbe un peso rilevante nel gettare un sanguinoso disordine nel cuore dello schieramento nemico. Decisiva fu la superiorità delle fanterie cristiane nella serie dei combattimenti ravvicinati tra singoli gruppi di galee, guidate da capi che «non mancavano di mostrare animo gagliardo e grande» (24). Intanto, «gran parte degli schiavi cristiani che si trovavano sopra l’armata nemica [...] facevano ogni sforzo per procacciare il loro scampo e la vittoria dei nostri» (25).

Molti furono gli episodi di eroismo: l’equipaggio della galera Fiorenza dell’Ordine di Santo Stefano, tutto ucciso salvo il suo comandante Tommaso de’ Medici e quindici uomini. Il generale Giustiniani, dell’Ordine di Malta, e il comandante della galera capitana dell’Ordine, fra’ Rinaldo Naro, furono feriti tre volte; quaranta cavalieri di Malta caddero nel combattimento (26): Morì, tre giorni dopo la battaglia anche il comandante in seconda veneziano, Agostino Barbarigo, il quale, accorgendosi che i suoi ordini non erano uditi bene, si scoprì il viso mentre «i nemici più fieramente saettavano; essendogli detto si coprisse [...] rispose che minor offesa egli sentirebbe di essere ferito che di non essere udito», e fu così ferito mortalmente (27). Del valore di don Giovanni si è detto; va anche ricordato il grande apporto di Marcantonio Colonna e del settantacinquenne comandante veneziano Sebastiano Venier.

Le proporzioni della sanguinosa battaglia possono essere riassunte in poche cifre. Se i caduti cristiani furono circa 9 mila, quelli turchi furono 30 mila, e varie altre migliaia quelli catturati. Soltanto trenta navi turche riuscirono a fuggire; delle altre, centodiciassette catturate e divise tra gli Stati membri della Lega e le rimanenti andarono distrutte (28).



Una vittoria senza conseguenze?

E la domanda che si pone Fernand Braudel, ricordando che una serie di storici, e primo — si potrebbe dire: naturalmente — Voltaire, hanno insistito sul fatto che negli anni successivi la vittoria non fu sfruttata a fondo (29).

In effetti riemersero antichi contrasti, mentre molti altri scacchieri impegnavano la Spagna. Nel 1575 Venezia fu fiaccata da una terribile epidemia (30). Nel 1578 don Giovanni d’Austria, che era nei Paesi Bassi a combattere contro i protestanti, morì improvvisamente. Ma si tratta di osservazioni storicamente non corrette, come già ho accennato in qualche osservazione precedente.

In realtà bisognerebbe domandarsi, per capire la portata dell’avvenimento, cosa sarebbe successo se la vittoria non ci fosse stata o, peggio, se ci fosse stata una sconfitta. Non solo tutte le posizioni veneziane nei mari Egeo, Ionio e Adriatico sarebbero cadute, ma la stessa intera Italia, e forse anche la Spagna, sarebbero state alla mercé dei turchi (31).

Allora comprenderemo la gioia dei popoli cristiani (32), l’entusiasmo dei veneziani all’arrivo della notizia, i festeggiamenti fatti un po’ dappertutto. Il Papa, quando ricevette dal nunzio veneziano la notizia della vittoria, proruppe in lacrime e ripeté le parole della Scrittura: «fuit homo missus a Deo cui nomen erat Johannes» (33). Il re Filippo II stava assistendo ai vespri nella cappella del suo palazzo, quando entrò l’ambasciatore veneziano, proprio mentre veniva intonato il Magnificat, gridando Vittoria! Vittoria!.

Ma il re non volle che si interrompesse la sacra funzione. Solo al termine fece leggere il dispaccio e intonare il Te Deum (34). Segno che si manteneva il senso della esatta gerarchia della storia in una buona prospettiva cattolica.

Certamente, la vittoria era stata ottenuta grazie a «la intelligentissima prudentia de i nostri generali, la bravura e destrezza de i capitani in mandare ad effetto, il valore de’ gentiluomini e soldati nell’essequire» (35). Ma, più ancora, a ben altre forze, secondo la bella espressione del senato veneto: «Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit», «non il valore, non le armi, non i condottieri ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori» (36). Del resto, la vittoria di Lepanto era avvenuta nel giorno in cui le confraternite del Rosario facevano tradizionalmente particolari devozioni (37).

Marco Tangheroni

***

(1) Di tali conquiste non bisogna dimenticare, accanto alle altre, le motivazioni di carattere religioso; cfr. Pierre Chaunu, La conquista e l’esplorazione dei nuovi mondi (XVI secolo), trad. it., Mursia, Milano 1977.

(2) Non è questa la sede per approfondire il discorso sui limiti e sui caratteri dell’umanesimo cristiano, che certamente esistette, ma, a mio parere, senza possibilità di caratterizzare nella sostanza il periodo e le tendenze e non senza illusioni ed errori di prospettiva.

(3) Plinio Corrêa de Oliveira, in Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, 3a ed. it. accresciuta, Cristianità, Piacenza 1977, pp. 71-73, coglie l’importanza di questo periodo nell’avvio del processo rivoluzionario. Per le tendenze — sulle quali insiste giustamente il pensatore cattolico brasiliano — è sempre affascinante e ricca di stimoli la lettura di Johan Huizinga, L’autunno del Medioevo, trad. it., Sansoni, Firenze 1966. Interessante anche — proprio per l’orientamento marxista e progressista degli autori — Ruggero Romano e Alberto Tenenti, Alle origini del mondo moderno, Feltrinelli, Milano 1967. Per l’aspetto filosofico Rudolf Stadelmann, Il declino del Medioevo. Una crisi di valori, trad. it., Il Mulino, Bologna 1978 (l’originale edizione tedesca è del 1929).

(4) Fondamentale è Fernand Braudel, Civiltà e imperi del Mediterraneo nell’età di Filippo II, n. ed. it., Einaudi, Torino 1976, in particolare pp. 887-1326.

(5) Cfr. Giancarlo Sorgia, La politica nord-africana di Carlo V, Cedam, Padova 1963.

(6) A proposito di questo argomento si può vedere Franco Cardini, Le crociate tra il mito e la storia, Istituto di Cultura Nova Civitas, Roma 1971, pp. 292-332.

(7) F. Braudel, op. cit., considera il 1565 l’ultimo anno della supremazia turca.

(8) Cfr. Ubaldino Mori Ubaldini, La marina del sovrano militare ordine di San Giovanni di Gerusalemme di Rodi e di Malta, Regionale Editrice, Roma 1971. Per una visione d’insieme è tuttora fondamentale, sul piano degli avvenimenti militari, Camillo Manfroni, Storia della marina italiana dalla caduta di Costantinopoli alla battaglia di Lepanto (1453-1571), Roma 1897. Ricordo anche il congresso tenutosi a Venezia in occasione del quarto centenario, Il mediterraneo nella seconda metà del ’500 alla luce di Lepanto, Olfehki, Firenze 1974; cfr. anche Filipe Ruiz Martin, The battle of Lepanto and the Mediterranean, in The Journal of European Economic History, 1, 1 (1972), pp. 166-169.

(9) Cfr. U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 220.

(10) Cfr. Francesco Balbi da Correggio, Diario dell’assedio di Malta, Palombi, Roma 1965; questo testo mi sembra il più interessante per avvicinarsi in modo diretto agli avvenimenti di quei mesi nell’isola.

(11) F. Braudel, op. cit., p. 1088.

(12) U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 243.

(13) Cfr. Ludwig Von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, trad. it., Roma 1944.

(14) F. Braudel, op. cit., p. 1100.

(15) Ibid., p. 1101

(16) Ibid., p. 1137.

(17) Ibid., p. 1176.

(18) A causa della tensione tra Cosimo e Filippo II le dodici galee toscane parteciparono come noleggiate dal Papa, le cui insegne — e non quelle stefaniane o medicee — innalzavano: cfr. Cesare Ciano, I primi Medici e il mare, Pacini, Pisa 1980, pp. 59-66.

(19) Cfr. Frederic C. Lane, Storia di Venezia, trad. it., 2a ed., Einaudi, Torino 1978, pp. 428-432.

(20) Una ricostruzione della galea reale di don Giovanni d’Austria si può vedere nel Museo Navale di Barcellona, in scala 1/1. Nella cattedrale della stessa città si conserva — ed è oggetto di gran devozione — un bel Crocifisso in legno, che si dice fosse a bordo della nave di don Giovanni.

(21) Cfr. Giovanni Pietro Contarini, Historia delle cose successe dal principio della guerra mossa da Selim ottomano ai Venetiani fino al dì della gran giornata vittoriosa contra i Turchi, Francesco Ramparetto, Venezia 1572, foglio 48 r.

(22) U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 274.

(23) Si tratta dell’Uccialì o Uccialli delle fonti cristiane. Il comportamento del Doria fu molto criticato, sia da alcuni contemporanei che da alcuni storici moderni. Ma la storiografia contemporanea tende a riconoscere l’opportunità del suo comportamento.

(24) G. P. Contarini, op. cit., f. 50 v.

(25) Gerolamo Diedo, La battaglia di Lepanto, Daelli, Milano 1863, p. 35. Diedo era un veneziano abitante a Corfù, contemporaneo degli avvenimenti.

(26) Cfr. U. Mori Ubaldini, op. cit., p. 277.

(27) ci. Diedo, op. cit., pp. 29-30.

(28) Cfr. F. Lane, op. cit., p. 431.

(29) Cfr. F. Braudel, op. cit., p. 1181.

(30) Cfr. Paolo Preto, Peste e società a Venezia nel 1576, Neri Pozza, Vicenza 1978.

(31) Così conclude anche F. Braudel, op. cit., p. 1182 «[...] se, anziché badare soltanto a ciò che seguì a Lepanto, si pensasse alla situazione precedente, la vittoria apparirebbe come la fine di una miseria, la fine di un reale complesso d’inferiorità della Cristianità, la fine d’un altrettanto reale supremazia della flotta turca [...] Prima di far dell’ironia su Lepanto, seguendo le orme di Voltaire, è forse ragionevole considerare il significato immediato della vittoria. Esso fu enorme». Il contemporaneo Contarini (op. cit., f. 34), scrive che prima di Lepanto «già era da tutte le parti il Christianesimo pieno di terrore».

(32) Interessante documentazione in Guido Antonio Quarti, La battaglia di Lepanto nei canti popolari dell’epoca, Milano 1930.

(33) Andrea Dragonetti de Torres, La Lega di Lepanto nel carteggio diplomatico di don Luis de Torres nunzio straordinario di S. Pio V a Filippo II, Bocca, Torino 1931, p. 64. Peraltro, san Pio V aveva già ricevuto la notizia per mezzo di un rivelazione divina: cfr. card. Giorgio Grente, Il pontefice delle grandi battaglie San Pio V, Edizioni Paoline, Roma 1957, pp. 166-168.

(34) Ibid., pp. 62-63

(35) G. P. Contarini, op. cit., f. 54 r.

(36) Citato, non a caso, da Giovanni Cantoni, in conclusione del suo saggio introduttivo a P. Corrêa de Oliveira, op. cit., p. 50.

(37) Cfr. Pio Paschini, voce Lepanto, in Enciclopedia Cattolica.

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